La letteratura è il più antico dispositivo di pensiero per l’umanità : intervista a Tabish Khair

di VALENTINA DI CESARE

La scrittura non è nè esprimere nè essere espressa – ha detto Angel de Frutos Salvador – è sempre suggerire, evocare, lavorare il suono, il significato, l’ambiguità. Tale affermazione mi riporta immediatamente alla scrittura di Tabish Khair, alla capacità innata e sorprendente che l’autore indo-inglese ha nel raccontare l’insondabile, nel narrare con lucidità il curioso binomio visibile-invisibile. La delicatezza e l’intelligenza del suo sguardo, portatrici di un’atmosfera magica e a tratti ipnotizzante, si riflettono su un linguaggio limpido e sempre controllato, attraverso il quale l’autore è abile sia a descrivere gli eventi  poco chiari, non sempre spiegabili attraverso la logica, sia quelli palpabili  e afferenti al quotidiano, episodi lampanti e contraddittori di cui è ricca la società indiana contemporanea.

Il grande stato asiatico che tenta da anni di apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, come un paese pacifico e democratico è in realtà teatro di grandi contraddizioni. Anche se le differenze di casta sono state formalmente e legalmente abolite, queste permangono fattualmente nella condotta e negli atteggiamenti della popolazione; a ciò si aggiungono le numerose tensioni dovute alle differenze religiose, specie tra i maggiori gruppi rappresentativi del paese, gli indù e i musulmani. La convivenza tra loro è storicamente conflittuale e la reciproca tolleranza è spesso scostante.

Nel suo ultimo romanzo, Night of Happiness tradotto da Adalinda Gasparini per l’editore Tunuè con il titolo La notte della felicità, Khair racconta la storia del ricco imprenditore indù di nome Anil e del suo collaboratore musulmano Ahmed. Moderno, razionale e dinamico il primo, silenzioso, metodico e solerte l’altro. Nonostante il pregiudizio iniziale da parte di Anil che nella sua vita non ha mai lavorato a stretto contatto con un musulmano, Ahmed si rivela un braccio destro instancabile. Benché siano appartenenti a due culture religiose differenti e spesso in contrasto, i due collaborano con grande sinergia. È pur vero che Anil e Ahmed si frequentano soltanto durante la giornata lavorativa: trascorrono ore e ore insieme nell’ufficio ma non conoscono nulla delle rispettive vite private. Un giorno, quando un violento temporale colpisce la città, tocca ad Anil accompagnare a casa Ahmed per non farlo arrivare tardi alla celebrazione dello Shab- e- barat, una festività musulmana a cui non rinuncia mai. Da quel momento Anil entra nella vita del suo collaboratore: varcando l’ingresso della sua casa, scorge i segreti di un’esistenza che, sino ad allora, non aveva mai conosciuto veramente, avvolta com’era da un velato mistero, da una discrezione tutt’altro che banale. Dinanzi al palesarsi di questi eventi, Anil vorrà indagare a fondo nella vita del suo impiegato grazie all’aiuto di un investigatore, ma sarà costretto nel contempo a fare i conti con la propria “reazione incontrollata”, manifestatasi senza preavviso quello strano pomeriggio, proprio entrando in casa di Ahmed .

Tabish Kahir, la sua narrazione è molto intensa e avvincente e in essa ci sono elementi rappresentativi della società indiana. L’India è la protagonista del romanzo esattamente come lo sono Anil e Ahmed? In che modo uno scrittore può scrivere di un mondo così complesso senza cadere nella trappola degli stereotipi? 

T.K. Innanzitutto ti ringrazio, sono felice che tu abbia trovato il romanzo intenso e avvincente e sono altrettanto felice che tu sia riuscita a rintracciare in esso alcuni aspetti della società indiana. Questa era sicuramente la mia intenzione! Chiaramente, io non ho pensato all’India in senso strettamente politico e geografico, non mi interessa parlarne in questo modo. Penso all’India come penserei all’Italia se vivessi lì, ovvero come un complesso di storie, tradizioni, vicende passate e possibilità ed è questo che a volte voglio catturare e mettere in discussione. Quali sono gli elementi di questa ricca compagine culturale che stiamo abbandonando? Perchè stiamo attingendo sempre e soltanto ad alcune storie a discapito di altre, magari migliori? Io credo che se mentre scrivi ti fai queste domande puoi fare una narrazione senza cadere negli stereotipi, e puoi anche indurre il lettore a mettere in discussione gli stereotipi stessi. Infine, per come la vedo io, la letteratura è il più antico dispositivo del pensiero conosciuto dall’umanità. Dovremmo ricordarlo e usarlo bene.

Il vento del razzismo e del pregiudizio sembra soffiare su tutti i paesi del mondo. Perchè abbiamo paure di chi è diverso da noi? Che ruolo svolgono, secondo lei, oggi i media nell’acuire le differenze? 

T. K. Anche se il mio romanzo non è entrato specificatamente in queste faccende, visto che nella mia storia io parlo dell’esplorazione personale di una tragedia privata, posso dirti che non credo che noi oggi siamo peggiori o migliori rispetto al passato. Ma è vero che siamo diventati tutti più vulnerabili. Ci sono varie ragioni che hanno portato a questo ma la ragione principale è che il capitale non è più legato alla produzione. Principalmente il capitale esiste sotto forma di numeri, ma non di denaro “vecchio stile”. La speculazione finanziaria è molte volte superiore alla quantità di scambi globali. I governi nazionali che siano di sinistra o di destra, sono parte di questo meccanismo. Devono accontentare questi poteri finanziari anche a costo di trascurare i cittadini, così aumentano le tasse per salvare le aziende e non per mettere in sicurezza le strade o mantenere gli ospedali. Tutto ciò rende le persone comuni molto più vulnerabili poiché sono più povere e indifese. Cercano spiegazioni ma anche capri espiatori. Anche i media giocano molto su questo, anche con la loro tendenza a sensazionalizzare. Questo è un cocktail potente che porta al pregiudizio e alla xenofobia. Qualcosa di semplice come controllare la speculazione finanziaria globale e tassarla per i benefici pubblici potrebbe cambiare le cose in meglio.

 

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Tu programmi e schematizzi i tuoi romanzi? Come ti avvicini alla creazione dei personaggi? Hai alcuni temi ricorrenti nella tua scrittura?

T.K. Una volta lo scrittore americano Doctorow disse che scrivere un romanzo è un po’ come guidare nel buio. Puoi vedere soltanto così, in maniera confusa ma se hai in mente una direzione alla fine tu puoi raggiungere la tua destinazione. Non ho trame molto forti o personaggi rigidamente tracciati sin dall’inizio anche se magari sono guidato da una buona idea. Io credo che sia importante ascoltare i propri personaggi e lasciare che crescano sulla pagina, non soltanto schematizzarli o progettarne le azioni. Trovo che sia essenziale la voce, il tono narrativo specialmente all’inizio. Ne ho bisogno soprattutto. Per quel che riguarda i temi, ho scritto romanzi molto diversi tra loro ma credo che contengano tutti storie di persone che, a mio avviso, sono solitamente sommerse nel nostro mondo a vantaggio di quelle che fanno più rumore.

Qual è il tuo lettore ideale? Quando scrivi a quale lettore pensi?

T.K. Quando scrivo immagino un lettore che è disposto a incontrarmi all’incirca a metà strada. Nei miei libri, in quello che scrivo, io cammino verso il lettore e voglio che il lettore faccia lo stesso e cammini verso di me, in modo che possiamo incontrarci da qualche parte nella vasta zona di mezzo. Lettori diversi mi incontreranno in zone altrettanto diverse ma si tratterà sempre di punti che stanno nel mezzo, non in corrispondenza della mia fine e nemmeno in corrispondenza della fine del lettore. Ecco, è questo il lettore per il quale scrivo.

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Al margine di questa intervista ho ritenuto opportuno inserire una testimonianza della sua traduttrice Adalinda Gasparini che inoltre è anche una sua attenta studiosa. Anthony Burgess sosteneva che la traduzione non è solo una questione di parole: il punto è rendere comprensibile un’intera cultura. Questa affermazione è particolarmente adatta a riflettere sulla traduzione della Gasparini anche perchè, soprattutto da un punto di vista “occidentale”, certe culture (in particolare quelle orientali) e di conseguenza certa letteratura, sono vittime di grandi semplificazioni che ne compromettono la bellezza e la affascinante complessità. Nel testo che segue, Adalinda Gasparini ha raccontato com’è stato il suo rapporto con la poetica e con il linguaggio di Khair.

A.G. Uno studioso indiano che aveva curato uno dei libri ai quali avevo contribuito con un saggio su Chandra, mi chiese a un certo punto di scrivere un saggio su Tabish Khair. Risposi ricusando la proposta, dato che non conoscevo l’autore ma il curatore  insistette, e allora gli chiesi di mandarmi il suo ultimo romanzo. L’intimità fra me e lo scrittore, col quale da allora ho uno scambio cordiale di mail fu immediata mano a mano che leggevo The Bus Stopped (2004). Su questo libro ho scritto e pubblicato un paio di saggi  (Kolkata & London 2013 e Newcastle upon Tyne 2014), ma leggendolo l’ho tradotto, per me. Parlandone per caso con un editore romano per il quale avevo scritto la prefazione a un loro volume di fiabe di Oscar Wilde, mi hanno proposto di pubblicarlo e allora ho ripreso la traduzione e l’ho rilavorata.

Ho chiesto all’editore di farmi avere un confronto con chi fosse di madrelingua inglese, e insieme abbiamo concordato tutte le variazioni. Non ho tradotto altri libri di Khair, finché lui non mi ha fatto mandare Jihadi Jane (2016). L’intimità che ha fatto scattare il desiderio irresistibile del corpo a corpo sublimato credo sia la straordinaria – per me unica – comprensione e capacità di Khair di raccontare il dolore femminile, la ferita intima quasi sempre innominata, e spesso, ancora, innominabile. Un dolore sul quale cade il silenzio, un dolore che nemmeno la donna può, o vuole, o sa dire con le parole. È il dolore che come tante donne ho conosciuto, che ho potuto curare in pazienti venute da me con una ferita tanto grande che nessuno poteva vederla, nemmeno le persone a loro più vicine, di cui nemmeno le donne ferite avevano coscienza, subendola come strazio inspiegabile. Questo dolore viene dalla stessa fonte che dà alla donna fiducia di dare vita, che nutre il desiderio di vivere degli altri unito al proprio, che le insegna la fonte della potenza femminile. È un dolore che di solito gli uomini non conoscono né immaginano, un dolore che di solito le donne non sanno dire.

Nei primi due romanzi di Khair che ho tradotto è il dolore di una maternità tragica, nel terzo quello dell’uomo che non può perdere, e non perde, la donna che gli ha dato vita, nemmeno dopo la sua morte. Nei libri di Khair, indiano di cultura musulmana, la denuncia dell’intolleranza è fortissima e priva di moralismo. Ed è rivolta al fondamentalismo islamico come a quello induista. Credo che questo sia il valore etico più alto dei romanzi postcoloniali: storie di intolleranza, fiabe di comunità. Aggiungerei solo questo: dopo aver tradotto Night of Happiness ho scritto una mail a Khair dicendogli che forse era meglio che non venisse in Italia, perché non avrebbe potuto piacermi come mi piaceva traducendolo. Mi ha risposto con humour, e ovviamente correremo il rischio. Forse nel – nell’amore del – lavoro di traduzione si realizza un ideale infantile, qualcosa di perfetto, analogo all’esperienza mistica come unione totale con un altro, magari un totale estraneo, lontanissimo fisicamente e culturalmente. Non ho una conoscenza specifica della cultura indiana, ma amo la varietà delle culture come amo la particolarità della mia, con i suoi colori mediterranei, greco-latini, e del Rinascimento fiorentino.

Amo le mie parole come le parole degli altri.

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