DI PENSIERI E UMORI SPAIATI – Gesualdo Bufalino dialoga con Ezio Sinigaglia

Quest’anno ricorre il centenario della nascita dello scrittore siciliano Gesualdo Bufalino. I suoi romanzi sono tra i migliori della letteratura italiana del Novecento. Bufalino, oltre che scrittore, è stato un infaticabile lettore e un elegantissimo traduttore (Terenzio, C. Baudelaire, J. Giraudoux e altri).
Per rendere omaggio alla sua memoria e a una scrittura senza tempo ho immaginato un dialogo a distanza tra Bufalino e uno scrittore contemporaneo. Un insolito discorso amoroso sulla scrittura e sulla lettura, una confessione intima intorno e dentro la letteratura di ieri e di oggi a partire da alcune riflessioni dello scrittore siciliano tratte dal volume Cere Perse *. (Mimma Rapicano)

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Gesualdo Bufalino
Perché si scrive, mi chiedo. Perché ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si dà corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta, s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori così plausibile piove la luce della luna nell’erba, e i nostri moti naturali, le più immediate insurrezioni dei nostri sensi c’invitano al gioco affettuosamente, divinamente semplice della vita? (da LE RAGIONI DELLO SCRIVERE)

Ezio Sinigaglia
E perché allora la Luna fa piovere la sua luce nell’erba? Forse per invitarci al gioco della vita? Non credo. Sono piuttosto dell’idea che la Luna, in certe notti prescritte, faccia piovere la sua luce nell’erba (o, meno idilliacamente, sulle tegole dei tetti che posso contemplare dalla finestra del mio bagno) perché così vuole la Natura. Perché, insomma, questo è appunto il mestiere della Luna: far piovere la sua luce sulla Terra. Non escludo neppure che la Luna, nella sua millenaria (o, piuttosto, migliaia di volte millenaria) saggezza, sia perfettamente consapevole e forse perfino soddisfatta della sua modesta funzione di specchio che, notte dopo notte, non fa altro che riflettere la luce abbagliante del Sole per deviarla smorzata sulla Terra (volgendo, per così dire, in una sorta di trasmutazione alchemica alla rovescia, l’oro in argento). Quel che mi sento di escludere è invece che la Luna, cadendo vittima all’improvviso di questo gioco di specularità involontarie, possa giungere mai a domandarsi, in uno slancio di scetticismo leopardiano: “Che faccio io luna in ciel? a che scopo sorgo la sera e vado, contemplando i deserti?”. L’idea di uno scopo è del tutto estranea ai perché della Natura. La Natura – credo – ha piena coscienza della necessità del suo perché causale e, insieme, della irrilevanza o anche più probabilmente della totale inesistenza di ogni perché finale. Siamo noi, noi esseri umani, a interrogarci invano sugli scopi. Siamo noi, noi scrittori, caro collega, mon confrère aîné, a confondere con astuti sofismi linguistici i perché causali con i perché finali. Perché scriviamo? Semplicemente, perché non possiamo farne a meno. Perché è necessario. Quando si scrive senza questa imperiosa necessità, senza cioè una causa, ma soltanto con uno scopo, allora si scrivono quelle che penso si chiamino, dalle tue parti, “minchiate”. Ma non è il tuo caso. E neppure il mio, credo e spero di poter dire.

Gesualdo Bufalino
Scrittori della penisola, confrères, e se provassimo per un poco, un anno, sei mesi, a tacere? Un silenzio totale, soffice, color del miele… Senza più né un romanzo, né un saggio, né un elzeviro, né una poesia, né un panfletto, né un’intervista…
E allora su, facciamolo questo gesto: incappucciamo le stilografiche, disarmiamo Olivetti e Remington, dopo tanti corpo a corpo cruenti. E prendiamoci una stagione sabbatica, sperimentiamo per la prima volta nei secoli la Cassa Integrazione dell’Alfabeto. (da FIRME PER UN SILENZIO)

Ezio Sinigaglia
Mah, caro confrère aîné, potrei risponderti così, con sommessa humilitate: facciamolo, sì, questo anno sabbatico dell’alfabeto scritto, ma facciamolo soltanto e limitatamente all’azione del pubblicare, non a quella dello scrivere. Un anno intero senza minchiate editoriali sarebbe un gran sollievo. I banchi delle librerie, sempre soffocati da quelle valanghe di novità che non contengono niente di nuovo e in mezzo alle quali è comunque impossibile distinguere il degno dall’indegno, tirerebbero il fiato, scricchiolerebbero di leggerezza e di allegria. E si potrebbe finalmente andare a caccia dei buoni libri dimenticati. Lo sottoscriverei all’istante, questo impegno: non pubblicare nulla per un anno. Per me non sarebbe certo un grande sforzo, figuriamoci! Sono rimasto trentun anni senza pubblicare, ho sotterrato il mio nome nella sabbia di una bellissima spiaggia di Sardegna, convinto che nessuno lo avrebbe mai riesumato. Trentun anni! Un solo anno sabbatico equivarrebbe per me a una timida gragnuola di sculaccioni per un masochista: del tutto insufficiente a raggiungere il piacere. Credo del resto che tu, caro confrère, mio collega anche in questo, nell’arte di ritardare la notorietà, possa capirmi facilmente.

Ma l’impegno di non scrivere per un anno, quello non lo prenderei mai. Come ti ho già confidato in un nostro precedente dialogo, intitolato alle “Ragioni dello scrivere”, la scrittura per me è una necessità, non già un mestiere o peggio ancora un passatempo. Scrivo soltanto sotto il giogo di quella necessità. In sua assenza non scrivo affatto (non avendo nessuna ragione, né etica né economica né sociale, di scrivere minchiate). È facile dedurne che posso restare per periodi lunghissimi, anche di diversi anni, senza scrivere un rigo. Ma è ancor più facile dedurne che, quando il fuoco della necessità comincia ad ardere e la frusta della Musa a schioccarmi sulla groppa, non mi ferma più niente, più nessuno. Non c’è patto d’amicizia né d’amore che possa trattenermi. Avessi avuto l’ardire di sottoscriverlo, un simile patto suicida (non scrivere una riga per un anno), lo straccerei senza indugio né vergogna. Quando fischia la frusta della Musa, io scrivo senza sosta e, al bisogno, senza nessun “materiale scrittorio”, anche mentre cammino, mentre guido o mentre dormo. Questa abitudine di scrivere con l’immaginazione è sempre stata tanto radicata in me che mi venne spontaneo di farne uno dei tratti più caratteristici del mio primo personaggio letterario, Daniele Stern, l’eroe del Pantarèi, che nel corso delle sue lunghe passeggiate scrive lettere, racconti, indovinelli. Da giovane avevo una memoria così efficiente e servile, così sottomessa alla mia volontà, che potevo consegnarle intere pagine composte al volante, in autostrada, e costringerla a custodirle intatte fino al primo mozzicone di matita.

Ora non è più così: la mia memoria si è ribellata o forse ha semplicemente perso qualche colpo. Devo facilitarle il compito, ricorrere ai più efficaci escamotage mnemonici. Credo sia questa la principale ragione per cui, dai quarantacinque anni in poi, ho cominciato a scrivere anche in versi: per avere qualcosa da fare quando vado a spasso.

Gesualdo Bufalino
In principio fu il Verbo, dicono. Vennero poi la Scrittura e la Lettura, speculari sorelle. Vogliamo dirla tutta? Nell’istante in cui l’appassionato di novità … si segregò a dilettarsene privatamente nel cerchio avaro di una lucerna, in quell’istante egli si condannò a patire le stesse equivoche estasi di chi ama non una donna di carne ma un pensiero di donna nella sua mente. A questo punto leggere divenne un vizio. Leggere per me significò soprattutto mangiare, saziare una mia fame degli altri e delle loro vite veridiche o immaginarie: dunque fu, in qualche modo, una pratica cannibalesca. (da LEGGERE, VIZIO PUNITO)

Ezio Sinigaglia
Su questo concordo pienamente: la lettura è una pratica alimentare. Si dice, del resto, quel libro “l’ho divorato”, quell’altro “mi è riuscito indigesto”, quell’altro ancora “va assaporato lentamente”, e così via. La lettura, come l’erotismo, ha un suo linguaggio mangereccio che bisogna guardarsi bene dal giudicare casuale. Si usano queste metafore palatali e gastriche perché, ne sono convintissimo, leggere è un nutrimento. Se penso alla mia adolescenza di lettore insaziabile (eccola qui, di nuovo, la metafora gastrica, o enzimatica) e gargantuescamente curioso (come ogni affamato che si rispetti) di tutti i sapori, dalla trippa al foie gras, mi rendo conto – molto a posteriori, s’intende – di quale fosse il vuoto che affannosamente cercavo di riempire: quello della mia identità di individuo, perché (come ho scritto molti anni più tardi, ma anche molti anni fa) nell’infanzia e nella prima adolescenza avevo vissuto confuso con l’organismo familiare “come un’arborescenza corallina col grande banco della sua colonia” e cominciavo quindi a provare un bisogno sovrumano di dire “io” e soprattutto di capire chi diavolo fosse questo “io”. Per quanto ne sapevo, poteva essere chiunque, costui, un Myškin o un Raskol’nikov. I romanzi che leggevo erano il solo modo che avessi per staccarmi dal mio banco corallino e uscire nel mondo. Erano il cibo che mi forniva la quantità di amminoacidi necessaria a edificare le proteine della mia personalità.

Hai certo ben presente, caro confrère aîné, quella trovata geniale che illumina la prima pagina della Rechercheproustiana, là dove Marcel, appena spenta la candela, prende sonno e si trasforma in ciò di cui parlava il libro che stava leggendo fino a un istante prima: fra le personalità assunte dal protagonista figura perfino quella della “rivalità tra Francesco I e Carlo V”. Ebbene, anch’io, dopo un’oretta buona passata a leggere, con il gomito puntato sul cuscino e la testa posata nel palmo della mano, spegnevo la luce e assumevo lì per lì le identità più improbabili, quella animalesca di Zanna Bianca come quella inanimata (eppure animatissima!) del letto sul quale, c’era da scommetterci, Mathilde e Julien avrebbero fatto l’amore il giorno dopo, o ancora quella astratta e cervellotica del concetto di numero immaginario con cui rodevo, simile a un tarlo etico, le difese del povero Törless. Soltanto che io, a differenza di Marcel, queste personalità le assumevo da sveglio. Fino almeno ai trent’anni sono stato insonne, di quel tipo di insonnia che definirei “primaria”, quella cioè consistente nella difficoltà se non addirittura nell’impossibilità di addormentarsi. A una cert’ora, tuttavia, spegnevo comunque la luce, per evitare di mettere i miei genitori in apprensione. Mi guardavo bene, infatti, dal rendere note le mie stravaganze, quella dell’insonnia, che frequentavo all’insaputa di tutti fin da bambino, così come quella, allora assai più recente, del mio orientamento sessuale, non meno ondivago dei miei gusti di lettore. Capivo bene che, se svelati, questi miei due segreti sarebbero stati interpretati come altrettante malattie e amorosamente sottoposti a terapie adeguate. E allora addio mattoni delle proteine, addio edificio della personalità! Quindi spegnevo la luce e ad occhi ben aperti m’incarnavo nei personaggi, negli arredi, nei sentimenti, negli esotismi geografici, sociali e gastronomici che animavano il romanzo appena chiuso. Inutile dire che i miei due segreti, in quei silenzi ovattati, in quelle fantasticanti solitudini, intrecciavano complicità voluttuosissime.

Adesso leggere è un’attività molto diversa da allora, eppure non si può negare che si tratti ancora di una pratica alimentare e anzi, come dici tu, caro confrère, cannibalesca. La mia insonnia ha cambiato orari e natura: ora mi addormento senza fatica, appena spenta la candela, come Marcel, ma i foschi pensieri (e gli acciacchi) della vecchiaia mi svegliano nel cuore della notte. Così riaccendo la luce e mi aggrappo alle vite ancora impetuose dei personaggi di carta, ne succhio fuori le proteine come un vampiro e do nuova concretezza alla mia stessa vita. Un’illusione, un inganno? E che cos’altro dovrebbe mai essere, la letteratura, se non finzione?

Gesualdo Bufalino
Non solo i diari, ma mi piacciono gli epistolari. L’idea di poter fiutare, palpare, pedinare, origliare il «quotidiano» di un autore che amo, di riuscire a rubargli quel segmento irripetibile di spaziotempo che è il «dove» e il «quando» di una sua giornata. Quando leggo, per esempio che la mattina di sabato 7 maggio 1921, a Baugy, in Svizzera, dal terrazzino della sua pensione, Katherine Mansfield vide un carro, tirato da una mucca e guidato da un ragazzo, avanzare lentamente verso un piccolo ponte; o quando appuro che il 21 dicembre 1845, domenica, Balzac restò chiuso in casa a soffiar l’anima in un fazzoletto, con la sola compagnia dei Tre moschettieri… ebbene, mi ci vuol poco per usurpare quell’occhio miope, quel naso fluviale; per patire, come se fosse mia, la memoria di quel tritume di vita. (da EPISTOLARI)

Ezio Sinigaglia
Tutto questo, caro confrère aîné (e aggiungerei, in questo caso, caro Maestro), è affascinante e magnificamente scritto: la bellezza della prosa mi ha conquistato senza fatica ai tuoi argomenti. Da quel gran lettore di gialli che sono, tuttavia, vorrei suggerirti che, se di questi scrittori amati tu volessi carpire non già il tritume di vita bensì, come aspirerebbe a fare ogni voyeur degno di tal nome, il segreto più riposto, sfoglieresti invano i loro epistolari. Figuriamoci se un vero segreto può essere disvelato in una lettera! È impossibile. Sono i romanzi, le poesie, le opere d’arte insomma, i luoghi da esplorare alla ricerca di quella disattenzione, di quel minuscolo lapsus capace di far crollare in un istante l’immenso edificio di una così tenace reticenza. Perché l’arte ha le sue esigenze, più forti di ogni altra.

Prendiamo un caso nostrano, il più nostrano di tutti: Alessandro Manzoni. Da sempre un settore ben agguerrito della chiesa cattolica e una frangia insignificante della critica letteraria lo sospettano di impostura. C’è addirittura chi ha affermato apertamente che la sua adesione alla dottrina fosse solo di facciata, un’ostentazione di bigottismo tanto più esagerata in quanto sotterraneamente vuota. Ebbene, andare a cercare anche il più pallido indizio di questo “doppiogiochismo” nel suo epistolario e nei suoi scritti privati sarebbe ed anzi è ed è sempre stato un’operazione quanto mai vana. E altrettanto vano è interrogare le sue opere più virtuose, come gli Inni Sacri, veri e propri esempi di catechismo in versi, privi di ogni passione.

Il romanzo invece, il grande romanzo, il sommo capolavoro che basta da solo a giustificare una vita lunga e per il resto piuttosto inoperosa, pullula di indizi. Gli uomini di chiesa sono, appena dopo i criminali a tutto tondo tipo Don Rodrigo, le figure più negative del romanzo. Don Abbondio è la banalità del male ante litteram, uno dei personaggi più spregevoli della nostra letteratura, al paragone del quale Ser Ciappelletto e Guiglielmo Rossiglione assumono fattezze d’eroi. Quanto a fra’ Cristoforo, non si può negare che entri in chiesa esclusivamente per salvarsi la pelle, il che rappresenta – se vogliamo – una metafora piuttosto raggelante della sua (santa) seconda vita. E che dire poi di quel fanfarone del Cardinal Federigo Borromeo, il quale, dopo avere portato in piena luce, grazie a un lungo colloquio-confessione a tu per tu, tutte le bassezze e le colpe imperdonabili di Don Abbondio, lo lascia libero di continuare ad agire per il peggio nella sua veste di parroco, senza comminargli il più lieve dei castighi? Alla fin fine la monaca di Monza è, fra tutti i consacrati a Dio, la meno peggio.

Come vedi, caro confrère, di indizi – indizi che nell’epistolario cercheresti invano – nel romanzo se ne trovano a bizzeffe, anche se, essendo uno per uno confutabili con argomentazioni acconce, nel loro insieme non producono una vera prova. Bisognerebbe cercarla nel segno involontario, questa prova, nella negligenza inconsapevole, distratta, bisognerebbe cercarla così, attraverso una rilettura pazientissima dell’intero romanzo, parola per parola. Allora la si troverebbe, la prova dell’impostura, se l’impostura c’è. La si troverebbe, è certo: perché il delitto perfetto non esiste.

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Ezio Sinigaglia (Milano 1948) ha lavorato per molti anni come copywriter, collaboratore editoriale freelance, ghostwriter e traduttore di saggistica. La sua opera prima, Il pantarèi, un metaromanzo sul romanzo del Novecento scritto nella seconda metà degli anni Settanta, è uscito nel 1985 per un piccolo editore lombardo (SPS, poi Sapiens). Dopo molti anni di silenzio, nel 2016 è tornato in libreria con un romanzo breve di ambientazione nordica, Eclissi (Roma, Nutrimenti; Premio Città di Lucca 2017, Premio Trivio 2018, vincitore di Modus Legendi 2020), molto apprezzato dai lettori e dalla critica; nel 2019 ha riproposto in una nuova edizione Il pantarèi, nella collana “Fondanti” dell’editore TerraRossa di Alberobello, che ha poi pubblicato nel 2020 il primo dei suoi inediti, L’imitazion del vero, e ha in preparazione altri suoi titoli. Un suo racconto figura nell’antologia Polittico, a cura di F. Borrasso (Caffèorchidea, 2019). Ha tradotto e curato edizioni di classici francesi (Perrault, Marcel Proust, Julien Green) e pubblicato contributi su prestigiose riviste a stampa e online.

* Cere perse (Sellerio 1985)

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