di IOLE CIANCIOSI
Andrea Campucci è nato a Incisa in val d’Arno, in provincia di Firenze nel 1983. Laureato in filosofia, il suo romanzo d’esordio è stato Naive, seguito dal saggio Nietzsche, la fine della ragion pura. Per Leone Editore sono usciti Plastic shop (2016) e Porn food (2018). Il suo ultimo romanzo è Movida.
Movida si presenta subito come un testo molto schietto e anche divertente, dal ritmo incalzante, dalle frasi lunghe e crudeli, dal passo veloce, retaggi postmoderni si infrangono in mezzo a duecento pagine. Si sentono echi alla St Aubyn, arriva un odore di alcol antico, malsano, è palazzeschiano in certi passi, esageratamente saturi dal punto di vista descrittivo quando, ad esempio, scrive: «prima che la sua voce venga soffocata da sinistri sibili, rombi, fischi, stridori, tintinnii, ronzii, fruscii, crepitii, soffi in chiave estremamente sumerica». È una prosa musicale, una scrittura d’avanguardia la sua. Se questo libro dovesse descrivere se stesso direbbe: provocante, dissacratorio, allucinato. È un’atmosfera da sobborghi benché ambientato in una grande città come Firenze. Si fanno strada malsane location come i cessi dei bar e i locali notturni che trasudano musiche assordanti, luoghi deserti e sperduti testimoni di delitti atroci. E’ un testo contemporaneo, non conforme alle regole civili e spinto al limite tra i meandri delle nostre angosce quotidiane. Abbondano abbreviazioni, linguaggio in codice, termini “alti” si mescolano con fluidità ad un linguaggio comune di stampo adolescenziale, benché i protagonisti non siano o non sembrino tali. Il linguaggio è importante in questo testo perché contribuisce a dare forma a un contesto che è strutturato sostanzialmente da parole lucidamente pensate e inserite al posto giusto, c’è una grande attenzione ai dettagli, a chiamare le cose con il nome che portano. Ogni tanto, inoltre, la quarta parete si rompe e un Campucci consapevole ci dice «sì, ormai l’ho scritto». La storia può essere vista come una grande messa in stato d’accusa dei vizi e delle incrinature più cruente della società contemporanea, del mondo in cui oggi viviamo. Il lettore pertanto non stenta a comprendere i molti riferimenti della storia e lo stesso squadernamento sintattico di piani linguistici che si sovrappongono è causa e strumento per indicare una certa confusione, un eccesso di stimoli a cui costantemente siamo sottoposti e da cui siamo schiacciati: la perdita del baricentro.Il libro è una sorta di tragicommedia macabra contemporanea, amara e violenta, all’interno della quale, sebbene la situazione sembra possa precipitare da un momento all’altro, al contempo viene sempre ristabilito un certo contegno, in un contesto in cui il controllo della pagina è quasi totale. Per comprendere meglio il punto di vista di Campucci, per sondare le origini delle vicende narrate, per capire da dove esca fuori una storia come questa, abbiamo fatto quattro chiacchiere con l’autore.
Il tuo ultimo libro, Movida, mi sembra un inno e al contempo una critica a questo nostro mondo, alla realtà allucinata, caotica e spinta al limite in cui viviamo oggi. A tal proposito voglio quindi chiederti com’è nata l’idea del libro, quanto tempo fa e come hai lavorato al progetto?
Potrei risponderti con un link diretto, immediato, a quello che la cronaca di questi ultimi giorni ci restituisce ad abundantiam. Prime pagine, trafiletti e talk show dedicati a giovani ubriachi che, alla guida dei loro mezzi, abbattono altri giovani incolpevoli all’uscita di qualche locale o semplicemente lungo una strada mediamente trafficata. Il sensazionalismo, il circo mediatico, la spettacolarizzazione del dramma, sono tutti fenomeni assai interessanti, in grado di rendere Pop perfino il più privato lutto familiare. È da questa prospettiva che ho voluto inquadrare il fenomeno della Movida, in un lavoro iniziato circa tre anni fa e concluso in un periodo di pochi mesi. Mi interessava sì, descrivere un mondo fatto di lustrini e Gin Tonic, ma che non avesse la pretesa di essere edificante, quindi alieno da ogni forma di pedagogia, che ne avrebbe inevitabilmente annacquato le potenzialità espressive. Ci sono indiscutibilmente delle energie creative anche nella distruzione, ed è compito di un’estetica pura, avulsa da ogni intento didattico, rintracciarle e tentare di portarle alla luce nella loro purezza.
Movida è un libro intenso, violento ed estremo. Da cosa è nata l’idea per un testo del genere, quali sono le influenze e il retaggio culturale che ne costituisce la base?
Come dicevo è sempre la realtà il punto di partenza. Certo, qualche bicchierata bisogna essersela fatta per mimetizzarsi al meglio nello stato mentale che molti ciarlatani, sui giornali, in TV o sui social, demonizzano in termini acritici. E forse stava proprio in questo l’urgenza di un libro del genere. Il gran chiasso che si fa da sempre intorno a certe “urgenze sociali” non fa altro che renderci queste ultime ancor più affascinanti, sovraccaricandole di un alone sinistro, ma proprio per questo irresistibile. In sintesi è proprio la cultura del divieto che produce il desiderio, un po’ come l’Eros, che non poteva non sbocciare dal concime cristiano dell’idea di peccato. Ecco, proviamo ad applicare questo tipo di ragionamento agli stili di vita tanto stigmatizzati, quindi implicitamente celebrati, di una certa gioventù. Cosa potrebbe mai venirne fuori?
Che cos’è per te la letteratura, quando è entrata a far parte della tua vita di lettore e scrittore e chi sono gli autori dai quali maggiormente ti lasci ispirare?
Per letteratura non bisognerebbe mai intendere un qualcosa di libresco. Certo, c’è una soglia minima di letture e, soprattutto riletture, che non dovrebbero mai mancare. E per soglia minima intendo l’intero patrimonio dei classici, da Parmenide a Philip Roth. Con certe “voci” il dialogo deve essere continuo, il confronto imprescindibile. È a loro che si deve guardare, meglio, loro si deve “ascoltare”, come se si trattasse di un irraggiungibile “avanti” a far da modello. Per quel che possa ricordare ho sempre avuto questa curiosità, questa spinta a ritrovarmi riflesso in un frammento di Eraclito o in una sparata di Nietzsche. Poi con il tempo si impara a maneggiarlo questo patrimonio, a riconoscere certe istanze come più o meno personali e piegarle alla materia che si vuol trattare, ma anche qui, il lavorio è inevitabilmente lungo e meditativo.
Sempre all’interno di Movida un elemento importante dal punto di vista strutturale della narrazione è rappresentato dal linguaggio. Mi sembra che tu utilizzi la lingua in modo consapevole e associ all’italiano termini inglesi, francesi, latini e greci. Possiamo definirlo un libro plurilingue. È un modo, questo, per confondere il lettore e testimoniare una sorta di perdita del baricentro? Succede la stessa cosa negli altri tuoi romanzi?
Posto che un baricentro ci sia mai stato sono convinto che i grandi romanzi siano quelli che hanno saputo affrontare il più lucidamente possibile un qualche tipo di crisi. «Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno» come diceva Artaud, e su questo ci metto la firma. Quindi sì, l’interesse per una realtà priva di qualsiasi teleologia ha sempre caratterizzato la mia scrittura. Da qui a voler rappresentare un “cosmos” deliberatamente disallineato rispetto a qualunque canone, o ordine che sia, il passo è breve, e ho provato a trarne tutte le conseguenze possibili anche a livello linguistico. Ecco il perché di molte mie “sperimentazioni” lessicali, o contaminazioni. Viviamo in un mondo fluido, sovrastimolato da input o slogan cosmopoliti e dunque inaccettabili. Mi si perdonerà un po’ di ironia in proposito, specie di fronte a generazioni di debosciati erasmusiani che sembran tutti fatti con lo stampino?
Jonathan Franzen scrive che la «letteratura è una forma di opposizione sociale», quanto reputi adatta alla tua scrittura una citazione del genere?
Pochissimo. Anche perché sì, la letteratura può essere una forma di opposizione sociale, ma a intenderla in questo modo si rischia di schiacciarla su un’immagine estremamente riduttiva. Personalmente resto ancora legato al fatto che la vera letteratura abbia a che fare con l’idea di “Poiesis”, quindi creazione, ricerca di nuovi significati, di un senso che si nasconda nelle, e tra, le cose. Per intendersi, ci può essere un interesse poetico in una diretta Facebook tanto quanto nelle Conversazioni su Tiresia di Camilleri. La realtà è di per sé polisemica e interconnessa, una sterminata rete neurale di cui, di tanto in tanto, la letteratura riesce a immortalare qualche scintilla. Ridurre questo vero e proprio “miracolo” a un semplice fatto sociale mi sembra disonesto.